domenica 11 settembre 2016

India: Durga.


"Assumendo diverse forme e impugnando molteplici armi, la Dea Durga, la prospera Madre dell'Universo, cominciò a combattere terribilmente sul campo di battaglia".
(Devibhagavatapurana).




Le radici di un culto della divinità femminile (devi) in India sono tanto antiche quanto difficili da individuare con precisione; sebbene siano numerose al protostorica, non sono sufficienti a dimostrare una continuità di culto per questo tipo di figura divina.
Sebbene la speculazione sacerdotale vedica e post-vedica privilegiasse divinità maschili, pare certo comunque che il culto di un principio femminile legato alla fertilità sia sempre stato presente nella religiosità "popolare" indiana.
La riflessione religiosa porterà allo sviluppo di questi valori nel concetto (e nella personificazione divina) della Shakti ("potenza"), il principio dinamico femminile dalle molte forme.
Durga ("l'inaccessibile") è una delle forme della Dea, consorte di Shiva nel suo aspetto guerriero di distruttrice di demoni.




Quando il Demone-bufalo Mahisha (simbolo della vittima sacrificale), attraverso l'ascesi, ottiene di non poter essere sconfitto da nessun uomo ne dio, Durga si manifesta a cavallo di un leone e lo sconfigge.
Kali ( "Tempo/Morte", a volte erroneamente messa in relazione con l'era cosmica del Kaliyuga), popolarissima soprattutto nell'India orientale, è una manifestazione terrifica, nuda, dalla pelle nera e dai capelli sciolti, adorna di una collana di teschi e danzante sul corpo del suo sposo Shiva; tuttavia è anche una divinità benevola, protettrice dei suoi devoti, e assume grande importanza in molte speculazioni tantriche.



Scultura raffigurante Durga Mahishamardini, XII secolo, New York, 
Metropolitan Museum


Questa scultura testimonia la grande perizia e l'attenzione minuziosa al dettaglio degli artigiani che operano in India orientale sotto la dinastia Pala, fra l'VIII e il XII secolo.
In questa raffigurazione la dea impugna nelle sedici mani le diverse armi che gli dei le hanno donato per sconfiggere l'asura (demone) Mahisha, fra cui il disco di Vishmu e la folgore di India.
I diversi aspetti che il proteiforme Mahisha assume prima di tramutarsi in bufalo ed essere ucciso della dea, rappresentano l'illusorietà del samsara, su cui Durga trionfa permettendo così all'anima di ottenere la liberazione (moksha).
Il demone Mahisha è a volte (come in questo caso) sotto forma di animale.
La dea ha decapitato il bufalo facendo così uscire l'asura che non abitava il corpo.
Il demone, in forma di nano armato di spada e con un cappuccio di maga, è appena fuoriuscito dal collo del bufalo, e volge lo sguardo in alto della dea, al contempo feroce e benevola; il leone di Durga morde il piede del demone.



Luoghi: Kangaroo Island, Australia.


Kangaroo Island: Il tropico del canguro.



Un viaggio alla scoperta della Kangoroo Island, un'isola con venti riserve naturali, spiagge deserte, dune altissime, foreste e labirinti di rocce dove si fanno incontri ravvicinati con koala, pinguini, marsupiali e otarie.
Dormendo nei fari e in dimore storiche, pescando aragoste e facendo surf nel mare color cobalto.
A mezzora di volo la vivacissima Adelaide, ricca di musei e gallerie, è la base di partenza per la Borossa Valley: un angolo verde di Mitteleuropa dove i discendenti dei pionieri producono i vini più pregiati del Pacifico.




Secondo la rivista francese l'Express, è uno dei ultimi paradisi non perduti della terra.
Un'oasi di natura felice, con una ventina di parchi protetti, foreste, spiagge bianchissime e scogliere su cui, però da anni puntano gli occhi le immobiliari di tutto il mondo, nella speranza di colonizzare il paradiso.
Poi, però, è arrivato l'annuncio che ha fatto tirare un sospiro di sollievo ai 4000 abitanti di Kangaroo Island, al largo della costa meridionale australiana; sull'isola, per ora, non si può costruire nemmeno un cottage in più.
L'isola dei canguri è quindi da scoprire subito, se si vogliono fare incontri ravvicinati con un esercito di marsupiali, otarie, foche neozelandesi, koala e ornitorinchi.
Per passeggiare lungo spiagge deserte tra dune di sabbia bianchissima e mare blu indaco.
Per dormire in bed & breakfast storici o nel cottage dei guardiani del faro.
Dopo il relax marino sull'isola si torna sulla terraferma, per inoltrarsi tra le fattorie della Barossa Valley, dove si produce il miglior vino locale, sostando qualche giorno ad Adelaide, una delle più vivaci città australiane.





Nel 1802, quando i primi occidentali, il capitano inglese Matthew Flinders e i suoi uomini, sbarcarono, Kangaroo Island era disabitata da millenni.
A parte i canguri, che si muovevano senza timore intorno ai marinai.
Quasi due secoli dopo Kangaroo Island, la terza isola dell'Australia per estensione, dopo la Tasmania e Melville Island, ospita un'infinità di canguri, wallaby, opossum, e altri animali ormai rarissimi.
Questo perché l'isola si è staccata dal continente circa 10 mila anni fa ed è rimasta disabitata per gli ultimi duemila: così piante e animali estinti in altri parti del mondo qui continuano a vivere al riparo da parassiti ed inquinamento.
Proprio per le sue caratteristiche, negli anni venti, Kangaroo Island fu scelta per istituire il primo parco nazionale dell'Australia e oggi il 70 per cento della superficie è area protetta.
Eppure solo uno stretto braccio di mare lungo 16 chilometri la separa dal resto del continente: una traversata di poco più di un'ora o un volo di trenta minuti dalla città di Adelaide.





Arrivare sull'isola, soprattutto dopo l'imbrunire, è emozionante: ai bordi della strada, delimitata dai profili argentei degli alberi, brillano tanti puntini rossi in continuo movimento che a un tratto si materializzano davanti alla luce dei fari.
Un cangurino alle prime armi saltella dietro la madre, opossum dalle folte code e altre creature notturne sbucano all'improvviso dai cespugli per cimentarsi nell'attività più rischiosa dell'isola: raggiungere l'altro capo della strada.
Chi si mette al volante lungo i 1600 chilometri tra strade e piste dell'isola è avvertito: qui la precedenza spetta sempre agli animali.




A qualche passo dal paese, la spiaggia di Penneshaw è una delle più sicure per nuotare, mentre il molo di Hog Bay è il preferito dei pescatori.
I Fairy Penguins, una varietà di piccoli pinguini che nidificano tra dune e scogli, è l'unica specie che vive e si riproduce in acque australiane, attendendo il calar del sole prima di ritornare in spiaggia e arrivare alla spicciolata a ogni ora della notte.
Puntualmente attesa da gruppetti di turisti scortati dalle guide, appostati tra il molo e l'insenatura di Christmas Cove.
Per fortuna l'uso dei flash che disturberebbe gli animali è vietatissimo.
A circa venti kilometri da Penneshaw, oltre la foce del Chapman River,  appare la lunga striscia di sabbia di Antechamber Bay, orlata da dune e punteggiata di zona d'ombra per pic nic.
Poco più a est, si erge il primo faro costruito nell'Australia del Sud, quello di Cape Willoughby, completato nel 1852.
Qui la costa si fa più selvaggia, scoscesa e impervia.
Dal faro un sentiero porta fino alla Windmill Beach, una spiaggia di ciottoli tondi e levigati dalla marea.






La strada principale che conduce a Kingscote è dominata dal profilo del monte Thisby che il capitano Flinders chiamò Prospect Hill.
Nelle giornate più limpide vale la pena di arrampicarsi per 512 gradini fino in cima.
E godersi la vista del monte Lofty, alle spalle di Adelaide e, verso l'interno dell'isola oltre Pelican Lagoon, di Pennington Bay amata dai surfisti più audaci che sfidano le sue correnti.
Da questa riva ci vogliono 5000 chilometri prima d'incontrare la terraferma: i ghiacci dell'Antartico.
American River, nell'omonima baia, si affaccia invece su un braccio interno di mare color cobalto orlato da una fitta vegetazione e solcato da pescherecci con le immancabili scie di pellicani al seguito del loro carico di granchi, salmoni, whiting, snook e garfish.
E' il pesce che figura tutti i giorni nel menù del Mattew Flinders Terraces Motel, un albergo di charme a terrazze, con miniappartamenti, vista a 180 gradi che spazia da Pelican Lagoon a Eastern Cove, terrazza panoramica e sauna all'aperto nel rigoglioso giardino.





Tutta la parte occidentale è occupata dal Flinders Chase National Park, un'immensa macchia di quasi 74.000 ettari, il primo tra i venti parchi naturali dell'isola e anche uno tra i più ampi dell'intero continente.
Qui crescono circa 400 tra le 700 piante endemiche dell'isola ( e 50 di orchidee ), vivono liberi wallaby e canguri, iguana, echidne ( animali molto simili agli istrici ), ornitorinchi, koala.
La zona di Rocky River è perfetta per gli incontri ravvicinati: i koala sono come sempre appollaiati sugli alberi; per avvistare l'ornitorinco si deve arrivare alla mattina presto o nel tardo pomeriggio.
Ma un incontro quasi assicurato è con i piccoli canguri e i tammar wallaby che vivono soltanto sull'isola, bestiole dagli occhi teneri e curiosi, che fanno capolino dal folto della vegetazione e si avvicinano con fiducia.
Attraverso l'apertura di Admiral Arch, un arco naturale di roccia vicino al faro di Cape de Couèdic, si possono osservare le foche da pelliccia neozelandesi divertirsi nelle pozze d'acqua, tra spruzzi di spuma.
E' scolpita nel vento e dall'acqua la spettacolare Remarkable Rocks, meta purtroppo anche di tutti i torpedoni.






Sulla punta di Cape Borda, una delle parti più remote dell'isola ( si raggiunge dalla Playford) sorge un faro squadrato con annesso un piccolo museo marittimo, che offre anche un'originale sistemazione.
E' il cottage dei guardiani, per sei persone, spartano ma suggestivo come quelli di Cape Willoughby, Rock River, Cape de Couèdic che si affittano tramite il National Park and Wildlife Service.
Passata  Scotts Cove che regala il miglior panorama sulle scogliere impervie ( le più alte dell'Australia meridionale ), parte uno stretto nastro di terra che s'inoltra nella vegetazione fitta.
Sei kilometri più avanti, un sentiero scende ripido per altri quattro fino alle Ravine di Casoras, una piccola insenatura tra pareti di roccia e caverne, dove si distinguono le scritte lasciate dall'esploratore Baudin e dal suo equipaggio.
Sempre che la popolazione di Fairy Penguin permetta agli umani di entrare nella loro dimora.
Benvenuti a Kangaroo Island, uno dei paradisi non ancora perduti.







Racconti di viaggio: Marocco, terra del vento.


Marocco, terra del vento.
Seguendo le orme di Salvatores.
Dalle location del film "Marrakech express"




La strada che porta a sud è un lungo pianeggiare verde, senza case; seguito da un bosco di eucaliptus, colline spelate e distese di piante.
Alle spalle Casablanca. Davanti Marrakech: la grande torre della Kotonbia al centro, vicoli dove riescono a mescolarsi e a convivere culture africane, islamiche, arabe e berbere e, sullo sfondo, le cime dell'Alto Atlante coperte di neve.
Il vecchio cuore di questa incredibile città è Jemaa el Fna, la piazza del "nulla" circondata da un fitto reticolato di mercanti, i souk.





Ed è qui che la vita è più animata; file interminabili di bancarelle di cibo, tappeti e monili, incantatori di serpenti e narratori di storie.
Ogni anno si riserva qui un milione di viaggiatori, più del doppio degli abitanti; arrivano in gran parte dalle spiagge di Agadir, per una breve visita di un giorno, il tempo sufficiente per vedere il minareto della Kontonbia o la Medersa di Ben Yussen.
Ed è un peccato, perché Marrakech si lascia conoscere solo da chi sà viaggiare nel tempo.



ll viaggio prosegue per 250 chilometri verso sud, lontano dal rumoroso traffico cittadino.
Proseguendo la statale che collega Marrakech con Agadir, ci si trova di fronte ad un scenario meraviglioso, forse uno dei più belli di tutto l'itinerario.
Spazi infiniti e, sullo sfondo l'azzurro intenso del cielo africano.
I paesaggi cambiano rapidamente; montagne, gole, valli e regioni pre-desertiche frequentate da pastori e dalle loro greggi.
Si ha la sensazione che il tempo, qui, si sia fermato.
La gente che si incontra è in completa armonia con l'ambiente e con i ritmi lenti e costanti di questa terra, e il domani sembra non esistere.
Si sente solo il rumore del vento.
La terra ha il colore rosso e, dove la roccia è nuda, l'erosione ha creato forme aspre e tonde.
E' il Marocco di Pierre Loti, scrittore di viaggi di fine ottocento.
In certi punti sembrano essere cambiato proprio nulla da allora.
Isole e spazi rimasti incontaminati.
Nessun sentiero li ha mai attraversati promettendo ricchezza e sviluppo.
Luoghi poveri, che non hanno conosciuto speculazioni.
Dopo alcune ore, si arriva finalmente ad Agadir, città della costa dell'Alto Atlante, che si affaccia sull'oceano.
La sua ricostruzione, dopo il terremoto che la colpì nel 1960, l'ha trasformata in una città di mare fortemente turistica.
Ma è solo una tappa.






Il vero crocevia del sud marocchino è Ouarzazate, situata tra le valli del Draa e Dades.
Ed è lei che prepara dolcemente il viaggiatore alle sensazioni più estreme del deserto e alla vista delle magnifiche "kasbah", capolinea delle culture più diverse, un tempo roccaforti e residenze principesche, oggi sentinelle della terra di frontiera tra i contrafforti dell'Alto Atlante e le lande desolate del Sahara.
Nessuno conosce veramente le origini di queste caratteristiche costruzioni: torri e mura in terra battuta o in mattoni cotti al sole, che racchiudono in sé semplici abitazioni o intere città.
La più importante e immortale è la kasbah di Taourirt, che circonda un grazioso villaggio berbero.
Ogni domenica mattina, tra le sue mure viene allestito un mercato dove si possono acquistare vesellame, oggetti in pietra intagliata, coperte e tappeti antichi.
Percorrendo per alcune ore la vicina valle del Draa, si incontra il fiume che le dà il nome, lungo le cui sponde si "srotola" un nastro fertile che dà vita a numerosi villaggi.
Un unica striscia a palmeto ricopre molti chilometri di terra prima del deserto.
Ed eccola la "perla del sud", Zagorà, un insediamento situato a 750 metri sull'altipiano subsahariano, che risale al periodo coloniale francese.
E' una stupenda oasi tra Agdz e Mhamidma.
Ma le sue case e le sue piante sono l'ultimo contatto con l'umanità che, proseguendo, scompare lentamente all'orizzonte.





A Merzougà, la strada s'interrompe e si presentano "potenti" dune di sabbia.
Affascinante, grandioso, sconfinato, il deserto offre un paesaggio carico di suggestioni, nella sua totale desolazione.
Ed è Erfoud il capolinea.
Città principale della valle dello Ziz, a sud di Er Rachidia.
Una delle località principali del Tafilet, regione da cui provengono gli antenati di Re Hassan II.
In ottobre, va in scena la festa dei datteri.
E c'è chi si spinge fino a Rissani, sede della residenza della famiglia reale e del mausoleo del capostipite della dinastia Manlay Ali Cherif.
Marocco profondo...terra del vento.





Luoghi: Tanzania, il Parco Ruaha.


Nel santuario degli elefanti, da sempre abbondanti in questa regione, oggi ancora più concentrati dalla pressione dei bracconieri, dove la visita è ancora avventura. 




Grande quanto l'intera Campania, con i suoi 12.950 kmq, il Parco Nazionale di Ruaha ripropone la visita alle grandi distese selvagge dell'Africa orientale.
A questa superficie vanno sommati, in termini di habitat naturale, anche circa 9000 kmq di savane della riserva di Rungwa, di cui Ruaha è la naturale prosecuzione.
Il Parco è vasto ma poco sviluppato.
Si accede in auto lungo la grande arteria che da Dar es Salaam raggiunge la frontiera con lo Zambia e dopo aver superato la città di Iringa, costeggiato il giovane fiume Rufiji e vaste estensioni selvagge con fitte savane ad aloe e baobab, si dirige su una pista sterrata verso il cuore della regione dell'etnia Hehe.
Raggiunto Msembe, centro e punto d'ingresso al Parco, si può raggiungere il lodge.
In aereo si può scendere direttamente alla air-strip dell'unico ma confortevole campo di soggiorno, il Ruaha River Camp, dove i bungalow di legno si affacciano tra le grandi rocce granitiche di un Kopje, sul fiume e la vallata retrostante, fungendo da vere e proprie postazioni per l'osservazione della fauna all'abbeverata.









Da luglio a dicembre è il tempo giusto per organizzare una visita, ma fino a ottobre la stagione è decisamente secca con grande concentrazione di fauna.
Ruaha è da sempre famoso, in Tanzania, per la grande concentrazione di elefanti e di Kudu, le grandi antilopi i cui maschi ostentano i grandi palchi che puntano verso l'alto dopo essersi più volte avvitati su se stessi.
Ancora oggi, malgrado lo stillicidio operato dai bracconieri, è possibile incontrare grossi hard di elefanti guidati dalle matriarche e assistere ai sorprendenti cerimoniali di saluto tra due branchi "conoscenti", durante la consueta abbeverata o toelettatura sulle sponde del fiume.





I rituali e la comunicazione a suon di barriti, movimenti degli orecchi e della testa, fino agli abbracci e gli intrecci con le proboscidi, sono uno spettacolo difficile da dimenticare.
Soprattutto durante la stagione secca il numero di elefanti può crescere notevolmente attorno al fiume e gli incontri tra i gruppi, e tra i maschi solitari e mandrie di femmini giovani, si intensificano creando meravigliose opportunità per l'osservatore.
Un posto unico quello del Parco Ruaha, in Tanzania.



sabato 10 settembre 2016

Algeria, l'uomo di Tamanrasset.





"Tamanrasset, le strade di sabbia rossa, i muri delle case impastati di fango e paglia, ombreggiati dalle verdi tamerici sahariane, Tuareg indolenti dall'ampio turbante e dalle gandure azzurre che passeggiano pigri tenendosi per mano, mercato fatto di corridoi e portici dove si ammucchiano per terra pochi legumi, datteri secchi coperti di mosche, selle da cammello, taniche di plastica, burnus di lana, aromi, ossa, misteriosi involti di farmaci africani, un fortino con quattro torri, grande cubo di terra rossa, il bordi, con una porta piccola e bassa, protetta da un muro antiariete, sulla parete a destra dell'ingresso un grosso buco che interrompe l'informità dell'intonaco screpolato come una pelle di elefante, il foro di una pallottola sparata la sera del primo dicembre del 1916".






Descrive così la mitica Tam, Gino Boccazzi nel suo "L'uomo di Tamanrasset" (Rusconi 1983) il libro che ha dedicato a padre Charles de Foucauld, il marabut bianco, l'uomo che per anni ha studiato la civiltà Tuareg ed ha cercato di mediare fra i colonialismo francese e il bisogno di libertà dei nomadi del deserto.
Era nato in Alsazia, nel 1858, De Foucauld, da una famiglia nobile che lo aveva avviato alla carriera militare iscrivendolo all'Accademia di Saint-Cyr e, giovane ufficiale, era stato mandato di guarnigione in Algeria dove aveva capito che la disciplina e le ottusità del mondo militare gli andavano troppo strette per resistere a lungo.
In più la vita nel deserto algerino lo avevano affascinato, i silenzi, i grandi cieli stellati, il canto del vento, le dune, altari naturali, eretti a salvaguardia di un mondo che non voleva aprirsi ai francesi, lo aveva spinto verso l'ascetismo, così aveva deciso di entrare in una congregazione religiosa e nel 1910 era stato ordinato sacerdote.







E subito era entrato nel deserto, in Marocco, in Algeria, quindi a Tamanrasset dove quella pallottola di cui racconta Boccazzi ha posto fine ai suoi giorni.
Una fulcilata folle, senza senso, perché De Foucauld era ben noto a tutti i Tuareg della zona ed era anche ammirato per il suo modo di comportarsi: un bianco che parlava la lingua dei Tuareg, che fraternizzava con gli schiavi, coi poveri, che viveva di nulla, che era giunto, unico in quei giorni, senza un fucile, che indossava una logora tunica, un tempo bianca, con un cuore rosso sormontato da una croce sul petto.Erano giorni in cui il colonialismo, come per giustificare la sua violenza, non soltanto negava ai popoli sottomessi la loro cultura ma ne cancellava sistematicamente i tratti, misconoscendone i valori.
"Il marabut dal cuore rosso", si comportava ben diversamente, era l'agnello in mezzo ai lupi, perché lupi erano anche i Tuareg, uomini forti, orgogliosi, abituati a farsi giustizia da soli, gente che concepiva la razzia come un atto di coraggio, che viveva con il pugnale alla cintura.





Poi De Foucauld si era ritirato sull'Assekrem, in superba solitudine, una vetta scoscesa, aspra, crudele, fra rocce, sole, vento, elementi che sembrano riconciliare l'uomo alla vita e spingerlo verso Dio.

Una piccola casa di pietra, che ancora esiste, e dentro una scritta: "Non custodisco abbastanza la presenza di Dio".
Lassù, fra quelle rocce spigolose, feroci, nel grande silenzio rotto soltanto dalle grida dei falchi, sono nati i tanti studi di quell'uomo mite e severo con se stesso che per capire un popolo ha cercato di farne parte, di adattarsi alle condizioni locali, di amare  i più bistrattati come amava l'amenokal, il capo, del quale era divenuto amico e confidente.
Accettato dagli altri, sia pure con qualche sospetto, guardato come un diverso dai suoi, quei francesi che avevano voluto occupare anche il grande vuoto dove soltanto i Tuareg erano in grado di vivere.
Poi quello sparo, opera di un fanatico.
Ed ora le spoglie riposano a El Meniaa in un sarcofago posto vicino ad una piccola cattedrale cattolica, quella di San Giuseppe.





nasce passione on the road